(2° pagina) (Torna
alla 1° pagina..) delle cellule. La nostra idea è di usare ciò che il cervello impiega normalmente per lavorare: gli ioni appunto. Se riuscissimo a cambiare la concentrazione di qualcuno di questi ioni microscopici, che stanno in prossimità di ciascuna delle cellule del cervello, potremmo cambiarne la reattività, potremmo spegnere oppure accendere questa cellula».
Per ottenere questo risultato è necessario innanzitutto che il nanodispositivo sia fabbricato con materiali bio-compatibili per non essere oggetto della risposta immunitaria del nostro organismo.
Devono funzionare come «antenne», in grado di ricevere correttamente i segnali elettrici dalle cellule, e come «pompe» per iniettare o aspirare gli ioni. «Esistono già dei polimeri che sono in grado di comportarsi come spugne e questi polimeri possono anche essere realizzati in modo microscopico», racconta il professor Giugliano. Vengono utilizzati nelle batterie elettroniche di nuova generazione.
«Nel nostro caso, questi polimeri sarebbero usati come “macchine molecolari” per intrappolare o rilasciare specifici ioni nelle aree che circondano i neuroni. Così facendo potremmo modulare l’attività delle cellule nervose utilizzando il loro stesso linguaggio, quello che usano normalmente per comunicare. In questo modo si potrebbero trattare malattie neurologiche come anche il Parkinson attraverso un sistema “naturale” e, per questo, più efficiente».
In vitro, su cellule nervose estratte dai ratti il microchip ha dimostrato di poter funzionare. «Le immagini al microscopio elettronico mostrano le nostre antenne nanoscopiche “inglobate” dalle cellule nervose, creando così un accoppiamento meccanico ed elettrico fenomenale che ci permette di registrare l’attività elettrica con una accuratezza e una precisione senza precedenti».
«Servirà una sperimentazione in vivo su modelli animali di malattia, premessa indispensabile per uno studio clinico vero e proprio rispetto al quale tuttavia servono risorse economiche ingenti. Prevediamo quindi un iter di almeno 10-15 anni. Se dovesse funzionare sull’epilessia rappresenterebbe comunque una specie di stele di Rosetta, permettendoci di apprendere un linguaggio che potrebbe essere utilizzato nella cura di diverse condizioni neurologiche o neurodegenerative».
23/09/2021 Andrea Sperelli
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