(2° pagina) (Torna alla 1° pagina..) volta in 2 tipologie, I e II, con la seconda caratterizzata da un quadro clinico più severo e rischio di sviluppare linfoma. Ad oggi, si stima che meno dell’1% dei celiaci ne sia affetto.
Lo studio del Policlinico, che si è svolto durante la prima ondata pandemica, ha coinvolto un totale di 21 pazienti affetti da celiachia refrattaria, di età compresa tra i 42 e i 77 anni, residenti nell’area di Milano. Tutti i soggetti sono stati preventivamente sottoposti a citofluorometria e biopsia duodenale che ne ha definito l’appartenenza alla tipologia I o II. Successivamente, è stata valutata l’eventuale presenza, nei 2 mesi antecedenti il reclutamento, di sintomi da COVID-19, ospedalizzazioni, screening per COVID-19 con test RT-PCR, nonché l’adozione delle corrette misure preventive (distanziamento sociale e uso dei dispositivi di protezione individuale).
Nonostante l’elevata presenza del virus nell’area oggetto dello studio, quella di Milano appunto, ma anche della fragilità dei pazienti reclutati, nessuno di loro ha manifestato sintomi da COVID-19 né ospedalizzazioni, né è stato quindi sottoposto a test RT-PCR nel periodo preso in esame. Un risultato positivo, che non può che aprire a numerosi interrogativi sulla possibile azione protettiva di fattori legati alla celiachia nella modulazione della risposta antivirale, e in controtendenza con quanto ipotizzato dalla British Society of Gastroenterology, secondo cui alcuni pazienti affetti da celiachia refrattaria dovrebbero essere considerati ad alto rischio di infezione da SARS-CoV-2, per via della somministrazione di farmaci immunosoppressivi.
“Oltre ai farmaci immunosoppressivi, ai corticosteroidi e agli agenti chemioterapici, altre condizioni, se presenti, possono aumentare la suscettibilità dei celiaci refrattari al virus, tra queste la malnutrizione dovuta a enteropatia proteino-disperdente e il linfoma a cellule T” – aggiunge il Dott. Elli. “Per quanto riguarda la suscettibilità alle infezioni virali in generale, il dimero HLA-DQ2.5, tipico di circa il 90% dei celiaci e del 25-30% della popolazione caucasica, avrebbe una minore capacità di interagire con le cellule T linfocitarie, influenzando potenzialmente la risposta ai virus e ai vaccini. Non è chiaro al momento in che modo questo possa modificare la suscettibilità al virus SARS-CoV-2”.
Come si spiegano, quindi, questi dati a fronte di una maggiore fragilità dei pazienti? Sebbene siano al vaglio diverse ipotesi, emerge un’elevata attenzione posta da questi soggetti nel seguire uno stile di vita “a basso rischio” durante la pandemia, proprio per timore di maggiori ripercussioni. Secondo Elli, nuovi dati saranno determinanti per chiarire le relazioni e gli interrogativi tuttora aperti in materia di celiachia e infezioni.

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Notizie specifiche su: celiachia, Covid, infezione, 26/11/2020 Andrea Sperelli


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