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alla 1° pagina..) che si verificano nei pazienti umani affetti da Alzheimer. Sottoposti a test mnemonici e di apprendimento, i topi con Dna manipolato ottenevano risultati nettamente inferiori a quelli del gruppo di controllo.
Ciò dimostra, secondo gli autori, che l’amiloide prodotta al di fuori del cervello ha la capacità di causare neurodegenerazione.
Alessandro Padovani, segretario nazionale della Società Italiana di Neurologia e direttore della Clinica neurologica dell'Università di Brescia, commenta: "In letteratura è dimostrato che in persone con Alzheimer vi è un aumentato livello di enzimi epatici e una maggiore sofferenza epatica. Personalmente credo che i pazienti con Alzheimer siano in generale molto sensibili al funzionamento del corpo, che alterazioni epatiche possano determinare infiammazioni sistemiche, e che abbia un ruolo anche il legame tra funzionalità epatica, funzionalità intestinale e microbioma. Insomma - continua Padovani - non penso che il fegato abbia un effetto diretto nello sviluppo dell'Alzheimer, ma penso che ci sia una sinergia di meccanismi che portano le persone a essere meno resilienti rispetto all'accumulo di amiloide. Se io miglioro, o quantomeno non peggioro, la funzionalità epatica garantisco anche una migliore resistenza all'effetto tossico dell'amiloide".
Lo studio suggerisce quindi l’ipotesi dell’Alzheimer come malattia sistemica, una patologia complessa che non si limita a colpire il cervello.
"Il fegato è fondamentale per detossificare e mantenere un adeguato metabolismo. Se funziona male, organi ancora più delicati come il cervello ne risentono. Ecco perché, in generale, nella terapia dell'Alzheimer non dobbiamo sottovalutare le patologie anche minime a carico degli altri organi, e curare il corpo per garantire ai pazienti una maggiore resilienza agli accumuli di amiloide".
20/09/2021 Andrea Sperelli
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