(2° pagina) (Torna alla 1° pagina..) Award della Fondazione Armenise-Harvard, in collaborazione con Luca Guidotti, vice direttore scientifico dell’Istituto e professore ordinario presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, e Renato Ostuni, group leader del laboratorio di Genomica del sistema immunitario innato. La scoperta, possibile grazie a sofisticate tecnologie di imaging cellulare e di genomica, apre la strada allo sviluppo di nuove potenziali terapie per l’epatite B cronica.
Il virus dell’epatite B (HBV) si trasmette per contatto con sangue infetto, per via sessuale o da madre a figlio durante il parto. Quest’ultima forma di trasmissione è la più diffusa in paesi come Africa e Cina, dove non è generalmente disponibile il vaccino contro HBV, molto efficace e in grado di proteggere il bambino se effettuato tempestivamente.
Il contagio con HBV può dare origine sia alla forma acuta della malattia, che in genere si risolve entro pochi giorni, sia alla forma cronica, per cui non esiste oggi alcuna cura definitiva, ma solo delle terapie antivirali di contenimento. Al contrario di quello che accade quando un adulto contrae il virus, oltre il 90% dei bambini che vengono contagiati alla nascita sviluppano la forma cronica di epatite B. Da cosa dipende l’inefficacia del sistema immunitario in questi casi? C’è un modo per risvegliare la sua azione?
Per rispondere a queste domande, i ricercatori del San Raffaele hanno studiato in un topo di laboratorio un sottotipo di linfociti T che ha il compito di attaccare il virus HBV, ma che nella forma cronica di epatite B non riesce a eliminare l’infezione. Per farlo hanno utilizzato una tecnica di microscopia in vivo sviluppata da Matteo Iannacone – la microscopia intravitale – con cui è possibile vedere singole cellule in azione in tempo reale. Grazie a questa tecnica, hanno scoperto che nell’epatite B cronica i linfociti T sono disfunzionali fin dalla loro attivazione, che avviene per contatto diretto con le cellule infette del fegato. Non solo, ma attraverso l’analisi dell’espressione genica dei linfociti, è stato possibile tracciare una sorta di ritratto dettagliato del loro stato molecolare, che ha fornito ai ricercatori moltissime informazioni. «La prima è che la scarsa capacità di reazione dei linfociti al virus dell’epatite B è diversa da quella che si osserva in presenza di altri virus o di cellule tumorali», spiega Matteo Iannacone. «Anche in alcune di queste patologie la risposta immunitaria è soppressa, ma il meccanismo con cui avviene è diverso». Ciò significa che i farmaci somministrati in quei contesti per riattivare il sistema immunitario – come gli inibitori dei checkpoint immunitari, già in clinica per alcuni tipi di tumore – potrebbero non funzionare bene per l’epatite B cronica.
La caratterizzazione dei linfociti T disfunzionali ha anche permesso ai ricercatori del San Raffaele di identificare delle molecole più adatte ed efficaci a risvegliare queste cellule. Tra queste, una è già stata sperimentata con successo sia in vitro, su cellule di pazienti, sia nel modello animale: l’interleukina-2, una molecola-messaggero del sistema immunitario.
I ricercatori sperano sia solo la prima di una lunga lista di candidati. «La più grande soddisfazione è aver messo a punto una piattaforma tecnologica nuova, che ci permetterà di identificare e validare nuove potenziali molecole capaci di attivare il sistema immunitario contro il virus, da testare in combinazione con antivirali di ultima generazione che stiamo indipendentemente collaborando a sviluppare», concludono Luca Guidotti e Matteo Iannacone.
La ricerca è stata finanziata dallo European Research Council (ERC), da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e dalla Fondazione Armenise-Harvard.
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Notizie specifiche su: epatite, infezione, molecola, 04/10/2019 Andrea Sperelli


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