Cancro al rene, pari efficacia di dovitinib e sorafenib

Sopravvivenza non superiore con l'uso di dovitinib

L'utilizzo del fattore di crescita dei fibroblasti dovitinib non migliora la sopravvivenza libera da progressione nei pazienti affetti da carcinoma renale metastatico rispetto a sorafenib. Lo ha stabilito uno studio randomizzato di fase III pubblicato su The Lancet Oncology.
Il coordinatore dello studio Robert J. Motzer del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York commenta: “l'attivazione del pathway del FGF è stata proposta come un meccanismo di resistenza alle terapie anti-VEGF e nei pazienti trattati in precedenza con farmaci mirati anti-VEGF e in pazienti andati in progressione durante il trattamento con questi agenti si è osservato un aumento delle concentrazioni plasmatiche del FGF2".
I ricercatori hanno provato a confrontare dovitinib con l'inibitore del VEGF sorafenib come terapia di terza linea, reclutando 284 pazienti affetti da cancro renale metastatico in progressione che erano già stati trattati con un agente anti-VEGF e con un inibitore di mTOR.
I volontari hanno assunto in maniera casuale 500 mg di dovitinib per 5 giorni alla settimana oppure 400 mg di sorafenib due volte al giorno.
Nel corso del follow up lungo 11,3 mesi, la sopravvivenza libera da progressione è risultata di 3,7 mesi con dovitinib e 3,6 mesi con sorafenib, una differenza statisticamente non significativa, confermata anche dai tassi di sopravvivenza globale. Stando ai risultati, va rivista l'idea che sia l'attivazione del pathway del FGF a costituire il meccanismo fondamentale di resistenza alla terapia anti-VEGF.
Nella maggior parte dei casi, i pazienti che hanno assunto dovitinib hanno mostrato tra gli effetti collaterali più comuni ipertrigliceridemia, stanchezza, ipertensione e diarrea, mentre quelli che hanno assunto sorafenib hanno subito ipertensione, stanchezza, dispnea ed eritrodisestesia palmo-plantare.
"I risultati dello studio confermano la validità dell'impiego di un inibitore del VEGFR (per esempio, sorafenib) nei pazienti già trattati con inibitori del VEGFR e di mTOR", scrive Motzer.
In un editoriale che accompagna l'articolo, Manuela Schmidinger, dell'Università di Vienna, commenta: “la maggior parte dei pazienti in questo studio (il 92% ) era stata trattata prima con un inibitore del VEGF e poi con un inibitore di mTOR prima del farmaco in studio. La tempistica del trattamento con l'inibitore del FGF nello studio di Motzer potrebbe essere sbagliata perché la potenziale importanza dell'inibizione del FGF è stata messa in relazione alla presenza della resistenza all'inibitore del VEGF. Si potrebbe ipotizzare che dovitinib potrebbe avrebbe avuto un effetto maggiore in seconda linea, quando compare la resistenza agli inibitori del VEGF".

Andrea Sperelli


Notizie correlate