L'epilessia si può curare anche in gravidanza

Una combinazione di farmaci per rendere sicuro l'acido valproico

Una combinazione di farmaci potrebbe rendere più sicuro l'utilizzo dell'acido valproico (o sodio valproato), un trattamento per l'epilessia molto efficace contro le convulsioni ma sconsigliato in gravidanza. Attraverso l'uso di organoidi, un team di ricercatori dell'Università del Queensland ha dimostrato il meccanismo di azione per cui l'acido valproico crea malformazioni e anomalie dello sviluppo neurocomportamentale.
Inoltre, lo stesso gruppo di ricerca ha individuato un farmaco capace di eliminare gli effetti collaterali dell'acido valproico. I risultati, pubblicati su Molecular Psychiatry, aprono nuove prospettive per il trattamento dell'epilessia in gravidanza ma anche per l'utilizzo degli organoidi per testare l'azione e la sicurezza dei farmaci.
La creazione degli organoidi è avvenuta a partire da cellule staminali pluripotenti, cioè da cellule che non avevano ancora assunto caratteri peculiari di una certa tipologia cellulare. Tali cellule, se opportunamente stimolate, sono indotte a differenziarsi in cellule con caratteri ben definiti. In questo caso i ricercatori hanno indotto la differenziazione a cellule del midollo spinale, caratterizzate dall'espressione del gene SOX10. Per individuare le cellule che avrebbero seguito il corretto programma in sviluppo, i ricercatori hanno associato a questo gene un doppio sistema di proteine fluorescenti che, quando espresse, rendono le cellule differenziate colorate al microscopio.
“È stato importante creare un doppio sistema di espressione di proteine fluorescenti: se l'espressione di una molecola fosse stata alterata dal trattamento farmacologico, avremmo comunque potuto osservare le cellule”, ha dichiarato Giovanni Pietrogrande, postdoc presso l'Università del Queensland e autore dell'articolo.
Proprio grazie a tale colorazione, i ricercatori si sono accorti che le cellule esposte ad acido valproico non differenziavano correttamente generando quelle malformazioni che si riscontrano a livello morfologico e funzionale. Attraverso analisi genetiche le cellule malformate hanno rivelato come vi fosse un processo di senescenza in atto.
Infatti, i geni che di solito guidano tale processo erano sovraespressi. I ricercatori pensano quindi di poter contrastare l'effetto del farmaco tramite una simultanea somministrazione di un secondo farmaco: la rapamicina. “Abbiamo scelto la rapamicina perché previene la senescenza cellulare in un vasto numero di modelli diversi. Alcuni gruppi di ricerca hanno già iniziato trials clinici per osservare eventuali azioni del farmaco nel contrastare gli effetti dell'invecchiamento”, ha aggiunto Pietrogrande. Negli organoidi trattati con acido valproico l'aggiunta di ripamicina è in grado di contrastare l'effetto del farmaco assicurando un normale sviluppo delle cellule spinali.
L'acido valproico è molto efficace per il trattamento dell'epilessia perché agisce sui canali del sodio voltaggio-dipendenti, sul rilascio del neurotrasmettitore GABA, sulla modulazione della produzione di fattori neurotropici e la riorganizzazione delle spine dendritiche. Tuttavia, ha un effetto teratogeno provocando la Sindrome da valproato fetale che si manifesta alla nascita con difetti cardiaci, malformazioni cranio-facciali, alterazioni a carico del tubo neurale e disturbi neurocognitivi.
Per questo motivo, anche le ultime linee guida pubblicate nel 2024 su Neurology continuano a sconsigliare l'uso dell'acido valproico in gravidanza. Sebbene il farmaco sia molto efficace è indispensabile agire in questo modo per ridurre il rischio di scarsi risultati sullo sviluppo neurologico, inclusi disturbi dello spettro autistico e punteggi inferiori di QI.
“Dal punto di vista etico è difficile sperimentare un farmaco durante la gravidanza per verificare gli effetti sul feto. Anche i dati sull'acido valproico sono di tipo epidemiologico e non sperimentali”, ha spiegato Pietrogrande. Esistono farmaci sostitutivi per l'acido valproico, ma il gruppo di ricerca dell'Università di Queensland ha voluto ugualmente concentrare la sua attenzione sul valproato.
In primo luogo perché molte donne, anche se pianificano una gravidanza, non possono interrompere la terapia a causa del rischio di convulsioni incontrollate. In secondo luogo perché l'acido valproico fa parte della lista dei farmaci essenziali stilata dall'Organizzazione mondiale della Sanità. Infatti, sebbene la lamotrigina sia considerata relativamente sicura in gravidanza, non è facilmente disponibile per le pazienti che vivono in paesi in via di sviluppo.
Sono pochi gli studi che hanno indagato l'effetto dell'acido valproico sulle cellule della cresta neurale, quelle che nell'embrione sono responsabili del successivo sviluppo di diversi tipi cellulari. Secondo Pietrogrande, l'unica possibilità per superare la limitazione legata alla particolare tipologia di cellule, era creare modelli in miniatura tridimensionali che imitano da vicino il midollo spinale di un feto nelle prime settimane di gestazione. Così è stato messo a punto il protocollo per gli organoidi.
Tale approccio si inserisce nella strada tracciata tanto dagli Stati Uniti che dalla Unione europea. Gli Stati Uniti hanno introdotto nel 2023 il Fda Modernization Act 2.0, un regolamento che propone metodi alternativi all'utilizzo degli animali per la sperimentazione di farmaci. Mentre la legislazione dell'Ue sugli animali si basa sul principio delle “tre R”: sostituzione, riduzione e perfezionamento.
Nessuna dei due regolamenti si riferisce esplicitamente agli organoidi. “Prima che possano essere introdotti a pieno titolo nella sperimentazione animale occorre considerare due fattori”, ha raccontato Pietrogrande. “Occorre valutare gli aspetti tecnici, cioè quanto possano gli organoidi ricapitolare quello che succede in vivo. E poi considerare l'aspetto legale, cioè il fatto che qualsiasi modello debba essere riconosciuto per legge”.
Gli organoidi non sono un sistema, quindi manca l'interazione dell'organo sotto esame con gli altri organi. “Questa è una limitazione ma anche un vantaggio perché il modello è semplificato ed è influenzato da meno interazioni”. Questi piccoli modelli di organo sono prodotti a partire da cellule staminali umane. “Sono un modello che permette di testare farmaci sull'uomo. Ciò significa che potrebbero essere testati anche sulle cellule del paziente, favorendo una personalizzazione della medicina. Inoltre, forniscono un modello relativamente facile da preparare per quelle malattie per cui non esiste un modello animale o se esiste non è in grado di riprodurre tutte le manifestazioni che si rilevano nell'uomo”, ha puntualizzato Pietrogrande.
L'iter per realizzare gli organoidi può variare da pochi giorni ad alcuni mesi, “ma una volta che il protocollo è stato perfezionato lo si può applicare su larga scala, senza limitazioni di numero di campioni”. Infine, affinché gli organoidi possano diffondersi nei trials clinici dovrebbero diventare modelli altamente replicabili.
“Purtroppo questo dipende molto dal protocollo seguito e dalla linea cellulare di partenza. Quest'ultima può avere un background epigenetico diverso a seconda delle condizioni in cui sono state equilibrate”. In altre parole, l'ambiente in cui le cellule crescono e si nutrono può influenzare l'espressione di determinati geni che sono “accesi” o “spenti” da veri e propri interruttori molecolari. “Per scongiurare una grande variabilità nei campioni, occorre fare molti controlli a livello delle cellule staminali di partenza in modo che siano standardizzate. Tuttavia, la variabilità esiste anche in natura e nemmeno in un clinical trial tradizionale si riscontra la guarigione nella totalità dei pazienti”, ha concluso Pietrogrande.
Un ulteriore passo per confermare gli esiti di questa ricerca sarebbe quello di testare l'azione dei due farmaci su altri modelli animali. Nell'articolo un primo test è stato fatto su Zebra fish, un modello che ha confermato i risultati ottenuti sugli organoidi. “Nel prossimo futuro si potrebbe ampliare la sperimentazione anche all'uomo. Infatti ci sono studi, purtroppo basati su un numero esiguo di casi, in cui la rapamicina è somministrata a donne incinte”.

Fonte: AboutPharma

02/12/2024 09:30:17 Andrea Sperelli


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