Arrivare a una diagnosi di cancro dall'esito (alterato) di un test del Dna fetale effettuato per rilevare eventuali disturbi cromosomici nel corso di una gravidanza. A descrivere questa prospettiva sono le conclusioni di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del National Institute of Health (Nih), pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Partendo dagli esiti anomali dell'indagine genetica, gli studiosi hanno eseguito uno screening basato sulla risonanza magnetica total body per verificare l'eventuale presenza di malattie oncologiche.
Un risultato confermato quasi nella metà dei casi (48,6 per cento) che, sebbene richieda “ulteriori studi per convalidare i modelli di sequenziamento del Dna fetale”, apre alla possibilità che “risultati anomali possano indicare una diagnosi di cancro in una popolazione di giovani adulti, in assenza di sintomi clinici”.
Il sequenziamento del Dna libero circolante nel plasma delle donne incinte ha avuto un effetto sostanziale sullo screening prenatale per l'aneuploidia fetale. Grazie alla sua accuratezza superiore rispetto allo screening sierico degli ormoni (free beta-hCG e Papp-A) e alla translucenza nucale, negli Stati Uniti è offerto di routine a tutte le donne incinte.
Mentre in Italia ha preso piede in maniera graduale (e a pagamento). Lo screening non invasivo non è infatti ancora inserito nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), ma diverse Regioni hanno iniziato a offrirlo alle proprie gestanti (anche se al momento soltanto l'Emilia-Romagna e la Valle d'Aosta lo offrono a tutte le gestanti, senza un precedente bi-test). In tutto il mondo, tale sequenziamento ha portato a una riduzione del 50-70 per cento delle procedure diagnostiche invasive (amniocentesi).
Ma non solo. Già da anni diversi gruppi di ricerca hanno pubblicato dati - i primi nel 2015 sul Journal of the American Medical Association (Jama), l'ultimo lo scorso anno su Obstetrics&Ginecology - riguardanti il potenziale di questi test nella rilevazione incidentale di diagnosi di cancro nelle donne incinte.
Come punto di partenza, la consapevolezza che, nel corso di una gravidanza, appena il dieci per cento del Dna circolante proviene dalla placenta. La restante quota deriva invece dal sistema ematopoietico della gestante e, in caso di presenza di una neoplasia, è possibile rilevare anche tracce del Dna tumorale che può alterare l'equilibrio tra il corretto numero di cromosomi e un'eventuale aneuploidia.
Quello che c'è da definire, in questo caso, è se l'aneuploidia sia da ascrivere al feto o se possa risultare come conseguenza di un tumore non ancora scoperto. Oltre all'eventuale iter da seguire, in seguito alla rilevazione di anomalie nell'esame del Dna non ascrivibili a una malformazione fetale. Da qui la decisione dell'Nih di rivalutare le potenzialità di questo esame nelle gestanti anche come potenziale strumento di screening oncologico.
I ricercatori hanno selezionato 107 donne incinte o reduci da una gravidanza negli ultimi due anni, senza una diagnosi oncologica e che nel primo trimestre di gestazione si erano sottoposte all'esame del Dna circolante in 12 laboratori nel Nord America.
A fronte di risultati non negativi, non confermati però dalle indagini ecografiche e discordanti con il cariotipo fetale, gli specialisti hanno inserito le donne in un percorso di screening così composto: risonanza magnetica total body, indagini di laboratorio e sequenziamento standardizzato del Dna fetale ricorrendo a una piattaforma genomica.
Una diagnosi di cancro è stata effettuata in 52 casi: con una sensibilità e una specificità della risonanza pari rispettivamente al 98 e all'88,5 per cento.
Tra i 52 partecipanti che hanno scoperto di avere una malattia oncologica, 31 erano affetti da un linfoma (venti di Hodgkin), 9 da un tumore del colon-retto e 4 da un tumore al seno. Altre malattie rilevate sono state il colangiocarcinoma, il carcinoma adrenocorticale, il carcinoma polmonare non a piccole cellule, l'adenocarcinoma del pancreas, il sarcoma di Ewing e il carcinoma renale.
Tra le donne affette da un tumore, in corso di gravidanza o nei mesi successivi, 29 (55,8 per cento) erano asintomatiche e 13 (25 per cento) avevano sintomi attribuibili alla gravidanza o ad altre cause (come il dolore epigastrico attribuito al reflusso in una donna con tumore del pancreas). In altri dieci casi i sintomi non sono stati riconosciuti o, quando valutati, avevano rivelato risultati rassicuranti.
“I nostri risultati supportano l'uso della risonanza magnetica total body nella valutazione delle donne incinte che ricevono risultati del sequenziamento del Dna circolante prenatale suscettibili di una diagnosi oncologica”, è quanto messo nero su bianco dai ricercatori.
Secondo gli autori, coordinati da Diana Bianchi (direttrice dell'Eunice Kennedy Shriver national institute of child health and human development dell'Nih), “l'anamnesi medica, i sintomi riferiti dai partecipanti, l'esame fisico e i test di laboratorio sono di utilità limitata nell'identificare quali partecipanti abbiano o meno un tumore e in quale sede. La gravidanza o l'assenza di sintomi evidenti non sono ragioni per ritardare l'imaging”.
Lo studio è stato accompagnato anche da un editoriale sul New england journal of medicine: a firma della ginecologa Neeta Vora (direttrice del centro di genetica riproduttiva dell'Università della North Carolina), che nel 2013 descrisse uno dei primi casi di diagnosi incidentale di cancro in una donna che si era sottoposta all'analisi del Dna circolante nel corso della gravidanza.
“È necessaria un'istruzione diffusa sia per gli operatori ostetrici sia per gli oncologi sulla possibilità che dallo screening del Dna circolante fetale possa emergere una diagnosi oncologica in una donna incinta. Serve un impegno in tal senso da parte delle società scientifiche e dei laboratori che eseguono lo screening, chiamati a stabilire quali possano essere le aberrazioni più suggestive di una diagnosi oncologica”.
Come comportarsi a fronte di un esame sospetto?
Quanto alla risonanza magnetica, occorre tenere conto che, se non all'interno dii uno studio clinico, “difficilmente una donna in seguito a uno screening anomalo effettuerà l'esame a proprie spese”, precisa Vora.
Secondo l'esperta, in attesa di ulteriori risposte dalla ricerca, “i ginecologi dovrebbero lavorare in un contesto multidisciplinare con specialisti in oncologia, radiologia, medicina materno-fetale e genetica riproduttiva per percorsi assistenziali ad hoc rivolti alle gestanti che ricevono un esito dell'esame del Dna circolante che potrebbe celare una diagnosi oncologica”.
Fonte: AboutPharma
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