Il nuovo farmaco per l'Alzheimer Lecanemab potrebbe bloccare alcuni aggregati della proteina beta-amiloide che fluttuano nel fluido del tessuto cerebrale raggiungendo anche regioni remote del cervello.
«Il nostro lavoro mostra per la prima volta che un farmaco può effettivamente curare le persone con Alzheimer e rallentare il declino cognitivo», afferma Dennis Selkoe del Brigham and Women's Hospital di Boston, autore dello studio pubblicato su Neuron.
I ricercatori sospettavano che l'effetto positivo del farmaco potesse essere associato alla sua capacità di legare e neutralizzare gli aggregati solubili di proteina beta-amiloide, noti anche come protofibrille o oligomeri, piccoli grumi liberamente fluttuanti della proteina beta-amiloide, ma finora nessuno aveva definito con rigore strutturale cosa fosse una protofibrilla o un oligomero a cui si potrebbe legare il lecanemab.
Gli autori dello studio hanno identificato proprio quella struttura. Hanno immerso i tessuti cerebrali post-mortem di pazienti con AD in soluzioni saline, le hanno centrifugate ad alta velocità determinandone la struttura atomica fino al singolo atomo.
Gli esperti si concentreranno ora sull'osservazione di come questi minuscoli aggregati di beta-amiloide viaggiano attraverso il cervello degli animali viventi e sullo studio di come il sistema immunitario risponda a queste sostanze tossiche. «Ricerche recenti hanno dimostrato che la reazione del sistema immunitario del cervello alla beta-amiloide è una componente chiave dell'AD. Ora approfondiremo la questione», conclude Selkoe.
Lecanemab è stato approvato alcuni mesi fa dalla Food and Drug Administration americana.
Lecanemab fa parte di una nuova generazione di farmaci allo studio per il trattamento dell'Alzheimer.
L'aspetto interessante di lecanemab sta nel suo meccanismo d'azione: si tratta infatti del primo farmaco che mostra una certa efficacia nella riduzione delle placche di proteina beta-amiloide, il cui accumulo costituisce la caratteristica principale della malattia di Alzheimer e dei suoi devastanti effetti sul cervello.
Lo studio ha coinvolto 1.795 pazienti con declino cognitivo lieve dovuto all'Alzheimer e con presenza di placche. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: al primo è stato somministrato il lecanemab due volte al mese per 18 mesi, gli altri hanno ricevuto solo un placebo.
Le condizioni cognitive dei pazienti sono state quindi valutate con lo strumento denominato Cdr-Sb (Clinical Dementia Rating-Sum of Boxes). Secondo i dati, il farmaco ha ridotto di 0,45 punti il declino cognitivo dei pazienti rispetto al placebo, in una scala che va da 1 a 18. In termini percentuali si tratta di una riduzione del 27% della progressione dei sintomi. Un dato non eccezionale, ma che rappresenta almeno una speranza per il futuro.
Tuttavia, in passato molte sono state le delusioni in tema di ricerca farmacologica per questa malattia. L'anticorpo aducanumab, ad esempio, non ha superato il vaglio dell'Ema per via di alcune incongruenze nei risultati dei trial presentati da Biogen per l'approvazione.
"Ritengo che l'annuncio dei risultati ottenuti con lecanemab sia una bellissima notizia", spiega Antonella Santuccione Chadha, fondatrice del Women's Brain Project e Chief Medical Officer di Altoida, startup attiva nella diagnostica dell'Alzheimer, che in passato ha collaborato allo sviluppo dell'aducanumab.
"Non si tratta solamente di una nuova terapia per i pazienti che soffrono di Alzheimer, ma anche di una conferma del ruolo della proteina beta-amiloide nella patogenesi della malattia: probabilmente non è l'unica causa, ma è una delle concause, e agendo sull'accumulo di placche amiloidi è possibile bloccare sul nascere il declino cognitivo. Di conseguenza, si tratta di una conferma indiretta dell'efficacia di aducanumab e degli altri farmaci che agiscono su questo target: se funziona uno, ci sono alte probabilità che funzionino tutti".
Anche Alessandro Padovani, direttore della clinica neurologica dell'Università degli Studi di Brescia, si mostra soddisfatto: "I dati sono estremamente incoraggianti - assicuro l'esperto - e confermano che i monoclonali che riducono l'amiloide nel tempo determinano un miglioramento dei sintomi cognitivi. Si tratta di un risultato importante che correla gli effetti biologici con gli effetti clinici, e che ritengo indichi che l'amiloide è la strada giusta: senza colpire la proteina beta-amiloide non potremo mai curare l'Alzheimer".
Il farmaco presenta comunque un'alta incidenza di effetti collaterali, inoltre bisognerà valutarne l'efficacia sul lungo termine.
"L'Alzheimer è sicuramente una malattia multifattoriale - conclude Padovani - e credo che in futuro serviranno altri farmaci, da affiancare ai monoclonali, per arrivare a terapie realmente efficaci. La strada comunque è segnata: ci sono altri due monoclonali di seconda generazione, come il leucanumab, in arrivo nei prossimi mesi, e in fase di sperimentazione abbiamo molecole anti-Tau, farmaci antinfiammatori e di altro tipo, che se si riveleranno efficaci andranno ad aumentare ulteriormente le armi a nostra disposizione già nei prossimi anni".
“È la prima volta che uno studio clinico su questa classe di farmaci raggiunge l'obiettivo primario, rappresentato dall'impatto sulla stadiazione della malattia - è il commento di Carmelo Marra, responsabile dell'Unità di clinica della memoria del policlinico Gemelli di Roma e associato di neurologia all'Università Cattolica del Sacro Cuore -. Siamo di fronte a una bella speranza, nonostante rimangano diversi aspetti da chiarire”.
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