Uno studio apparso su Alzheimer's Research & Therapy mostra l'efficacia di una nuova tecnica di diagnosi per la malattia che sfrutta la presenza nel sangue degli esosomi leganti la proteina beta-amiloide.
«L'Alzheimer può essere diagnosticato in modo definitivo solo mediante l'esame diretto del cervello, che ovviamente è eseguibile solo post-mortem. L'accumulo di beta-amiloide nel cervello può essere misurato mediante test del liquido cerebrospinale, o mediante tomografia a emissione di positroni, ma il primo è un test estremamente invasivo che non può essere ripetuto, e il secondo è piuttosto costoso», afferma Kohei Yuyama della Hokkaido University, che ha diretto il gruppo di lavoro.
Per questo motivo, i ricercatori sono alla ricerca di un test facile, rapido e non invasivo per facilitare la diagnosi della malattia. Un lavoro precedente del gruppo di Yuyama aveva dimostrato che l'accumulo di beta-amiloide nel cervello è associato agli esosomi, vescicole secrete da diversi tipi di cellule. Quelli che derivano dai neuroni legano la proteina beta-amiloide e la trasportano alle cellule gliali del cervello per la degradazione.
Gli scienziati giapponesi hanno adattato il Digital Invasive Cleavage Assay (Digital ICATM) già esistente per quantificare la concentrazione di esosomi leganti la beta-amiloide in soli 100 µl di sangue. Il dispositivo realizzato intrappola molecole e particelle presenti in un campione in un milione di pozzetti microscopici di dimensioni micrometriche su un chip di misurazione, rilevando così la presenza o l'assenza di segnali fluorescenti emessi dalla scissione degli esosomi leganti la beta-amiloide.
«Questa tecnologia idICA altamente sensibile è la prima applicazione di ICA che consente il rilevamento altamente sensibile di esosomi che trattengono specifiche molecole di superficie da una piccola quantità di sangue senza la necessità di apprendere tecniche speciali. Poiché essa è applicabile ai biomarcatori esosomici in generale, potrebbe anche essere adattata per l'uso nella diagnosi di altre malattie», concludono gli autori.
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