Un recente studio pubblicato su Jama Internal Medicine evidenzia la possibilità che un uomo possa avere un cancro alla prostata anche in presenza di un test del Psa negativo.
Il motivo andrebbe ricercato nell'eventuale assunzione di farmaci per il trattamento dell'ipertrofia prostatica benigna, condizione molto frequente a una certa età .
«Livelli alti di Psa non sempre sono indicativi di un tumore e si corre il rischio in questo caso di peccare per eccesso di zelo esagerando con trattamenti non necessari - spiega Giuseppe Procopio, responsabile della Struttura semplice di Oncologia medica genitourinaria all'Istituto nazionale dei tumori di Milano -. Di questo aspetto si è parlato a lungo. Meno noto è il pericolo opposto. Ci sono anche casi in cui bassi livelli di Psa non sono necessariamente rassicuranti e non possono escludere la presenza di un carcinoma. Quei valori potrebbero infatti essere falsati dalle terapie assunte per il trattamento di un disturbo benigno».
Con il passare degli anni molti uomini sperimentano i primi disagi legati alla condizione della loro prostata. L'organo tende a ingrossarsi, dando luogo a disturbi di varia natura, dalla difficoltà a iniziare la minzione al bisogno frequente di andare al bagno. Si parla in questi casi di ipertrofia prostatica benigna, condizione che colpisce il 50% dei 35-40enni e addirittura l'80% degli over 70.
Per valutare la condizione della prostata si usa da anni il test del Psa, un prelievo di sangue che misura i livelli di antigene prostatico specifico. Dai dati è possibile stabilire la presenza di una prostatite, ovvero un'infiammazione, l'ipertrofia, cioè l'aumento del volume della ghiandola, o quella di un tumore.
«È importante ricordare che il valore del Psa da solo non ci permette di dire se una persona è affetta o meno da un tumore della prostata - ricorda Procopio, che è anche consigliere dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica -. Ed è importante che gli uomini segnalino al loro medico eventuali disturbi senza allarmarsi e senza trascurarli a lungo».
Lo studio in oggetto è stato realizzato dai ricercatori della University of California San Diego School of Medicine, i quali hanno esaminato i dati relativi a oltre 80mila uomini che si erano sottoposti al test fra il 2001 e il 2015.
È emerso che solamente il 29 per cento dei pazienti in cura con inibitori della 5-alfa reduttasi (5Ari) ha effettuato una biopsia entro due anni da un test del Psa dall'esito sospetto in confronto al 59 per cento degli uomini che non assumeva i farmaci in questione.
Inoltre, il 25 per cento di chi assumeva medicine per la prostata ingrossata riceveva una diagnosi a uno stadio avanzato della malattia, in confronto al 17 per cento delle persone che non seguivano la stessa terapia. Infine, il 7 per cento dei pazienti in cura con inibitori della 5-alfa reduttasi aveva un tumore metastatico rispetto al 3 per cento degli uomini non in cura.
Cifre che mostrano l'esistenza di un problema di diagnosi: gli inibitori dell'enzima 5-alfareduttasi, infatti, determinano una riduzione dei livelli dell'antigene prostatico specifico, pregiudicando l'attendibilità dell'esame del Psa.
«Il test del Psa è utile per i soggetti a rischio, quelli che hanno una familiarità positiva per carcinoma della prostata e che dovrebbero eseguire il test almeno una volta attorno ai 45 anni - spiega Procopio -: sulla base del risultato si possono poi disegnare le strategie dei controlli e la loro frequenza. E poi, naturalmente, per chi ha disturbi della sfera genitourinaria. L'indicazione a eseguire l'esame dovrebbe essere concordata con il proprio medico di medicina generale o lo specialista urologo. E sempre con il medico andrebbero valutati attentamente gli esiti, onde evitare di preoccuparsi eccessivamente o di sottostimarli, procedendo con altri esami se necessario».
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