Nuove tecniche per consegnare i farmaci al cervello

Ricercatori studiano il modo di superare la barriera emato-encefalica

Per anni la barriera emato-encefalica è stata considerata uno degli ostacoli più impenetrabili della medicina. Questo sofisticato sistema di difesa naturale protegge il cervello da tossine e patogeni, ma allo stesso tempo rende quasi impossibile il passaggio di farmaci, soprattutto quelli biologici. Oggi, però, questo scenario sta cambiando: una nuova generazione di tecnologie di “shuttle molecolari” sta aprendo la strada a trattamenti più efficaci per Alzheimer, tumori cerebrali e malattie genetiche rare. Lo racconta un articolo pubblicato su Nature a firma di Alison Abbott.
La storia di Daiza Gordon e dei suoi figli affetti dalla sindrome di Hunter - una malattia genetica rara causata dalla carenza dell'enzima iduronato-2-solfatasi (Ids) - è emblematica dei progressi in atto. Se per i fratelli di Daiza non esisteva cura, oggi i suoi tre figli partecipano a uno studio clinico che sfrutta una tecnologia in grado di trasportare l'enzima mancante direttamente nel cervello. I primi risultati sono promettenti: miglioramenti cognitivi, motori e uditivi mai osservati prima, in particolare nel figlio più piccolo, trattato fin dai primi mesi di vita.
Finora, la terapia enzimatica sostitutiva per la sindrome di Hunter proteggeva organi periferici come fegato e reni, ma era inefficace sul sistema nervoso centrale proprio a causa della barriera emato-encefalica. I nuovi approcci superano questo limite attraverso un “trasportatore molecolare”: un'etichetta chimica attaccata all'enzima Ids che gli permette di attraversare le cellule endoteliali della barriera.
Il cervello umano è un organo metabolicamente esigente e protetto da circa 650 chilometri di vasi sanguigni, rivestiti da cellule endoteliali strettamente unite. Queste impediscono il passaggio della maggior parte delle molecole idrosolubili o di grandi dimensioni. Solo sostanze molto piccole o lipofile riescono a passare liberamente; altre, come glucosio e ferro, utilizzano trasportatori specifici.
La ricerca farmacologica ha cercato per decenni di sviluppare farmaci abbastanza piccoli e lipofili da attraversare questa barriera. Alcuni, come la levodopa per il Parkinson, sfruttano trasportatori aminoacidici. Ma per i farmaci biologici - anticorpi, enzimi, vettori virali per la terapia genica - è necessario un cambio di paradigma.
“Stiamo assistendo a una vera rivoluzione nella neurofarmacologia,” afferma James Gorman, responsabile del Brain Targeting Program presso il Wyss Institute di Harvard. “Quasi tutte le grandi aziende del settore stanno sviluppando programmi specifici per superare la barriera emato-encefalica”.
Negli ultimi anni la Fda ha approvato anticorpi monoclonali per l'Alzheimer capaci di colpire le placche di amiloide, ma meno dello 0,1% della dose somministrata per via endovenosa raggiunge effettivamente il cervello. Il passaggio avviene indirettamente, attraverso le zone meno protette della barriera, con distribuzione inefficace e potenziali effetti collaterali gravi, come infiammazioni e microemorragie.
La soluzione più avanzata oggi mira a sfruttare il sistema di trasporto del ferro, che utilizza i recettori della transferrina. Attaccando una molecola terapeutica a una porzione modificata di un anticorpo in grado di legarsi a questi recettori, si può “ingannare” la barriera, facendo passare il carico terapeutico in modo selettivo e sicuro.
“Ci sono voluti anni per sviluppare uno shuttle cerebrale sicuro,” spiega Azad Bonni, responsabile della ricerca neuroscientifica di Roche tra le aziende impegnate in questo filone di ricerca. “Non deve interferire con la funzione naturale del recettore né restare bloccato all'interno delle cellule. E naturalmente, il farmaco deve restare attivo una volta arrivato a destinazione”.
La sindrome di Hunter è solo l'inizio. Le tecnologie shuttle si stanno sperimentando per molte altre condizioni, dalle malattie genetiche ai tumori cerebrali, fino alle malattie neurodegenerative. Il principio è semplice ma potente: sfruttare i meccanismi di trasporto già esistenti nel cervello per veicolare molecole terapeutiche complesse, che prima erano escluse dal trattamento.
Nel caso delle malattie lisosomiali, come la sindrome di Hunter poi, il vantaggio è doppio. Non solo è possibile introdurre l'enzima mancante nel cervello, ma le cellule indirizzano naturalmente queste proteine verso i lisosomi, dove sono necessarie. Una perfetta coincidenza tra bisogno biologico e veicolo terapeutico. La strada è ancora lunga, in particolare per quanto riguarda la distribuzione precisa del farmaco all'interno delle varie aree cerebrali, ma il cammino è tracciato.

Fonte: AboutPharma

30/05/2025 Andrea Sperelli


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