Un nuovo trattamento per l'Alzheimer è all'orizzonte stando ai risultati di un nuovo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine da un team della West Virginia University di Morgantown diretto da Ali Rezai, che spiega: «Il trattamento sperimentale prevedeva la creazione di un'apertura nella barriera emato-encefalica con ultrasuoni focalizzati guidati dalla risonanza magnetica per aumentare la somministrazione del farmaco».
I ricercatori hanno analizzato 3 soggetti, un uomo di 77 anni, uno di 59 anni e una donna di 64 anni. Tutti avevano ricevuto una diagnosi di Alzheimer durante l'anno precedente.
Nessuno dei tre aveva assunto aducanumab e nessuno era portatore di un allele APOE4. Per 6 mesi, i partecipanti hanno ricevuto aducanumab per via endovenosa mensilmente, con una dose scalata fino a 6 mg/kg. L'apertura della barriera ematoencefalica con ultrasuoni focalizzati è iniziata due ore dopo ogni infusione, e la barriera si è chiusa entro 24-48 ore dopo la procedura.
Gli ultrasuoni focalizzati sono stati applicati ad aree con alti livelli di beta-amiloide nel lobo frontale o temporale o nell'ippocampo. Alcune regioni cerebrali dell'emisfero controlaterale sono state utilizzate come controlli. In tutti e 3 i partecipanti la riduzione dell'amiloide è stata maggiore nelle regioni cerebrali oggetto degli ultrasuoni focalizzati.
Dal basale alla valutazione a 26 settimane, le scansioni PET hanno mostrato che gli ultrasuoni focalizzati combinati con aducanumab hanno portato a una riduzione dei livelli di amiloide da 224,2 a 115,2 centiloidi nel partecipante 1, da 185,6 a 104,6 centiloidi nel partecipante 2 e da 251,5 a 84,9 centiloidi nella partecipante 3. I partecipanti 1 e 2 non hanno mostrato cambiamenti neurologici, cognitivi o comportamentali alla loro ultima visita di follow-up. Al trentesimo giorno di follow-up, i punteggi dei test cognitivi della partecipante 3 sono diminuiti, ma non si è notato alcun cambiamento neurologico o nell'attività dei punteggi della vita quotidiana.
«Il nostro studio non ha quantificato la penetrazione dell'anticorpo monoclonale e pertanto non è stato dimostrato direttamente un potenziamento del rilascio dello stesso, ma i risultati suscitano ottimismo sul fatto che questo approccio al trattamento potrebbe rallentare la progressione della malattia di Alzheimer», concludono gli autori.
Fonte: NEJM 2024. Doi: 10.1056/NEJMoa2308719
NEJM
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