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alla 1° pagina..) una forma grave di Covid-19 mostrano anticorpi che reagiscono in maniera errata, aggredendo il sistema immunitario invece del virus. Un altro 3,5% è portatore di una mutazione genetica che predispone alla forma grave della malattia. In entrambi i casi la chiave sembra essere l’interferone di tipo I, che in questi sottogruppi di pazienti mostra una funzionalità ridotta. Nel primo sottogruppo, l’interferone viene neutralizzato dagli stessi anticorpi, mentre nel secondo l’organismo non riesce a produrlo in quantità sufficienti a causa della mutazione genetica.
“I risultati suggeriscono in modo convincente che disfunzioni dell’interferone di tipo I costituiscono spesso la causa delle forme più critiche di Covid-19”, spiega Casanova, coordinatore di entrambi gli studi. “Almeno in teoria, si tratta di disfunzioni che possono essere trattate con farmaci e approcci già esistenti”.
“Questo approccio ci permetterà di scavare sempre più a fondo nei meccanismi molecolari e genetici che spiegano le forme più gravi di Covid-19 e di suggerire terapie mirate per gruppi specifici di pazienti”, aggiunge Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e professore ordinario di pediatria all’Università Vita-Salute San Raffaele. “Questo è solo il primo risultato, ma è già molto promettente”.
Gli scienziati hanno preso in esame i tessuti di 987 pazienti con forme gravi di Covid-19, scoprendo che in oltre il 10% dei casi i pazienti avevano in circolo auto-anticorpi contro l’interferone di tipo I, elemento fondamentale per la risposta immunitaria. Si tratta di auto-anticorpi rari: su un campione di soggetti sani composto da 1227 persone, infatti, solo 4 ne mostravano la presenza. La percentuale del 10% fra i malati gravi dimostra quindi la loro influenza nello sviluppo della malattia, secondo gli scienziati.
"Pensiamo che gli auto-anticorpi contro l’interferone possano spiegare una parte rilevante delle forme più aggressive di Covid-19 e del modo in cui queste forme si distribuiscono nella popolazione generale, ovvero colpendo maggiormente le persone di sesso maschile e di età avanzata”, spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute del San Raffaele e professore associato di endocrinologia all’Università Vita-Salute San Raffaele, che ha contribuito all’analisi ed è tra gli autori della ricerca. “Non a caso, dei pazienti che presentavano gli auto-anticorpi, il 95% erano uomini e più del 50% aveva più di 65 anni di età”.
La seconda parte dello studio aggiunge che un ulteriore 3,5% di pazienti con forme gravi è portatore di mutazioni genetiche che impediscono la corretta produzione dell’interferone I.
“I due studi si rafforzano a vicenda e suggeriscono che intervenire per ristabilire le corrette quantità di interferone I nelle fasi iniziali dell’infezione potrebbe essere efficace contro le forme più severe di Covid-19, almeno in un gruppo selezionato di pazienti,” afferma Fabio Ciceri, vicedirettore scientifico e professore di ematologia al San Raffaele. “Ed è proprio in questa direzione che va uno studio clinico in partenza presso il nostro ospedale, che testerà la somministrazione di interferone beta – un tipo di interferone I solitamente usato per la Sclerosi Multipla o forme croniche di epatite – nei pazienti Covid-19 gravi”.
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25/09/2020 Andrea Sperelli
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